Quando è successo a Mosca, un’infinità di anni fa, non mi sono neppure reso conto del tesoro che avevo scoperto. Casualmente. Era il 1991 e l’Unione Sovietica si era appena disgregata. Il crollo del comunismo aveva provocato una cascata di crolli. Colpiti da improvviso benessere, come mi piace spesso ricordare, i russi si vendevano tutto pur di partecipare alla nuova vita. I contadini e i tanti poveri affollavano le bancarelle portando tutto quello che avevano. Il più ricco si chiamava Ismailov ed era quello frequentato da noi turisti in cerca di souvenir dell’impero. Richiestissime le icone che i contadini recuperavano dalle vecchie chiese. I giovani facevano affari con gli orologi: il modello più venduto era il Polyot. I vecchi s’inventavano un business certo: si trasformavano in sosia. Intorno a piazza Rossa c’erano innumerevoli “copie” di Lenin e Stalin che chiedevano rubli per una foto ricordo. Sbucava la Coca Cola davanti al Cremlino, McDonald in piazza Puskin, nascevano joint-venture russo-americane, si avviavano centri commerciali, i magazzini del popolo, i Gum, sostituivano man mano i vecchi negozietti di cianfrusaglie con le griffes più famose. In mezzo a tutto questo baillame nasceva la mafia, Mafi come si dice in russo senza la A finale, cioè la “Organizacija” nata sulle ceneri del regime trasformando i vecchi funzionari del partito in autentici oligarchi. Si vendevano tutto. Ed è così che per soli cento dollari un ex ufficiale del Kgb offrì al mio producer, Boris Kornilov (adesso vive a Washington) di entrare nei sotterranei della Lubianka. Era comunque uno scoop incredibile perché in quelle stanze c’erano infiniti segreti su settanta anni di bolscevismo, tanto che i russi quando passavano lì sotto ancora si facevano il segno della croce (e se lo fanno ancor oggi…) Noi entrammo seguendo semplicemente una Volga nera fino al portone. Ho raccontato mille volte l’emozione e anche la sorpresa di ritrovarmi davanti, a tiro di telecamera, un archivio poderoso nascosto, addirittura negato per cinquant’anni sulla seconda guerra mondiale. Tre milioni di schede e un settore dedicato all’Armir, cioè all’armata italiana. Il sottufficiale che ci accolse con grandi sorrisi, ci sfidò: “ditemi un nome”. Mario Rossi…..si avvicinò agli scaffali ed estrasse una bustina: dentro c’era tutto, documenti, cartoline, foto, prigionia, vaglia non spediti, praticamente tutta la vita di quel povero soldato grazie alla maniacale metodicità sovietica. In un mese scoprimmo addirittura tremila soldati vittime dell’oblio, tremila dispersi che in Italia stavano cercando. Un miracolo.
A Mosca, a quei tempi, c’era il generale Benito Gavazza, già comandante della Julia e primo direttore di Onorcaduti che aveva stretto un accordo con l’omologo Bistrinski, capo dei Memoriali russi. Li seguii verso un’emozione ancora più grande: la riesumazione.
Per andare nella valle del Don, mille chilometri, ci misi due giorni. Mangiando solo una fetta di lardo offerta dal previdente autista , forse per farsi perdonare della chiacchiera continua (in russo). Gavazza aveva con sè le mappe dei cimiteri minuziosamente disegnate dai cappellani militari. Si cercava qualche raffronto, ma erano tutti nascosti da una realtà diversa rispetto a mezzo secolo prima. Chiese, strade costruite sopra le tombe rendevano difficile la localizzazione. Ma alla fine i volontari afghani (reduci dalla guerra in Afghanistan) riuscivano sempre a trovarli. Si sondava il terreno ed apparivano i cimiteri con le tombe tutte in fila, segnate con i numeri che nelle mappe corrispondevano ai nomi. Ricordo che in fondo c’era sempre qualche fila in più: corrispondevano ai soldati fascisti, le camicie nere che i cappellani avevano sepolto solo per carità cristiana. Si scavava e apparivano le bare. Quando si scoperchiavano era un pugno nello stomaco. I corpi dei soldati italiani, sepolti appena morti dopo una battaglia, apparivano integri, con le divise. E dentro le divise le lettere magari mai spedite a casa, le cinte con incisi gli amori della loro vita, le gavette piene di slogan. Potete immaginare il turbinio di emozioni quando si consegnavano i reperti, e anche i resti, alle famiglie.
Tornato a Mosca mi aspettava un altro impegno: la ricerca dei filmati d’epoca a Ostankino, la televisione russa. Assolutamente inediti, mai visti. Alcune fasi della battaglia ma soprattutto la vita da prigionieri, nei campi. Feci molti servizi al Tg1. Ricordo che una madre di Napoli riconobbe il figlio, un ufficiale, e rischiò un infarto. Mi commossi e finalmente ebbi consapevolezza di quel che avevo scoperchiato dopo tanto tempo e tanto dolore, dando qualche risposta a chi l’aspettava da anni. Un valore umano che superava nettamente quello giornalistico.
Aprii un blog e un gruppo che ancor oggi vivono delle richieste accorate dei familiari dei dispersi, rinnovando l’importanza della memoria per quei ragazzi partiti di corsa e mai tornati. Vent’anni dopo esatti, nel 2011, sono tornato nella valle del Don alla ricerca degli ultimi testimoni che ricordavano quei ragazzi “bruni belli sorridenti sempre affamati” con cui avevano condiviso una guerra. Tecnicamente erano nemici, ma tante storie toccanti che ho scoperto da uomini e donne allora bambini e ora vecchi mi hanno confermato che c’è qualcosa anche più forte delle guerre: ed è l’amore.
Ed ecco quindi la quinta opera che, grazie a Tralerighelibri, dedico all’Armir: memoriali e racconti nascosti nei cassetti che meritano di vedere la luce per rispetto a giovani eroi che non vanno dimenticati. Le generazioni passano e ora sono i figli, spesso i nipoti di quei soldati a scriverci, esaltando il valore di un filo che non si spezzerà mai.
Pino Scaccia